Una vergognosa pena, “la colonna dell’infamia”

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Vi sembrerà strano ma la costruzione di Castelcapuano, anticipa di piu di due secoli quella della omonima porta adiacente.

Il maniero, infatti, fu costruito per volere di Guglielmo I il 1165, probabilmente su una preesistente struttura fortificata e fuori dalle mura di cinta della città, in prossimità del punto in cui era ubicata porta Campana, antico ingresso al decumano inferiore di via Tribunali.

La porta è datata invece 1484, periodo in cui vennero ampliate le mura perimetrali cittadine sotto il dominio aragonese, e venne ubicata proprio nei pressi della fortezza.


Inizialmente la struttura del castello era molto differente dall’assetto attuale, così come lo era tutta la zona confinante.

Volendo mettere a dura prova la vostra immaginazione, vorrei che pensaste ad un vero e proprio castello, dalle mura alte e invalicabili, ricco di merlature e torri di vedetta.

Pensate che la regina Giovanna II fu costretta a rifugiarsi nella fortezza, per lungo tempo, durante lo scontro con Alfonso V d’Aragona e, alla fine, l’aragonese dovette arrendersi di fronte all’inespugnabilità della fortificazione.

Dopo Guglielmo il normanno, ideatore del castello, arrivarono gli Angioini che trovarono la costruzione non più idonea alla vita Regale e diedero inizio quindi all’edificazione di una nuova fortezza, “Castel Nuovo” o “Maschio Angioino”.

Qui vi si trasferirono i futuri sovrani di Napoli, mentre Castel Capuano, perso l’aspetto “fortilizio”, divenne un “semplice” lussuoso palazzo di corte.

Dal XVI secolo venne completamente inutilizzato dai reali e cominciò ad assolvere le funzioni di tribunale e carcere, eliminando dalla sua struttura tutte le opere tipicamente militari e modificandone gli spazi interni.

I sotterranei furono destinati a prigioni dotati di lugubri camere di tortura, essendo non solo luogo di detenzione, ma anche sede di supplizi ed esecuzioni capitali.

Come era d’uso, le procedure penitenziarie avvenivano quasi completamente in pubblico, al di fuori del palazzo, e lo spiazzo compreso tra Castelcapuano e porta Capuana, via san Giovanni a Carbonara e la chiesa di Santa Caterina a Formiello, diventò teatro di patimenti e pene capitali con la partecipazione straordinaria di un pubblico fortemente partecipante.

A testimonianza della notevole “attività pubblica”, è un dipinto dell’epoca in cui sono rappresentate, ferme e/o in movimento, portantine e carrozze di vario rango, viandanti indaffarati in più situazioni compreso il mendicare, avvocati riconoscibili dalla toga nera che confabulano tra loro, bancarelle per la vendita addossate al muro del tribunale e lungo il viale e, addirittura, scugnizzi che sembrano litigare tra loro.

Ma le scene che più impressionano sono il corpo di un uomo che sembra essere stato impiccato e appeso ad una finestra, una fila di prigionieri che si dirige probabilmente verso il patibolo e, alla loro testa, un uomo che suona una trombetta, forse per promulgare il verdetto dei condannati che lo seguono e, piu o meno al centro della scena, è visibile una colonna di marmo bianco, stranamente isolata da tutto.

Oltre le pene per assassinio, furto, tradimenti e quant’altro, sullo stesso piazzale, tra cadaveri smembrati, teste mozzate e ossa rotte, veniva eseguita la pena, e sembra non di poco conto, dei debitori insolventi, ovverossia di chi non era in grado di onorare un debito.

Questi veniva sistemato sulla cima della suddetta colonna, gli si facevano abbassare i pantaloni, e lo si costringeva a mostrarsi cosi, nudo, alla folla divertita.

Sembra che a quei tempi, il reato di mancata corresponsione dei propri debiti, non fosse molto differente da altri oggi considerati ben più gravi, infatti per l’espiazione non bastava mostrarsi nudi, ma si doveva anche gridare ad alta voce di voler vendere tutti i suoi beni per pagare il debito, impegnandosi così a regolare, nel più breve tempo possibile, la propria situazione.

In seguito questa pena fu sostituita dal solo esporre il capo scoperto al cospetto dei creditori proferendo sempre la stessa frase.

Con Carlo di Borbone,  la colonna venne abbattuta, ma la sua base, lasciata sempre al suo posto, venne utilizzata come ceppo mortuario per esibire, come monito, i corpi dei condannati, o di coloro che erano periti tragicamente, per la loro identificazione.

Oggi la “colonna dell’infamia” (così come è denominata), è conservata nel Museo della Certosa di San Martino, ma sono in pochi i visitatori che ne conoscono le origini.

sergio dattilo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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