Sant’Antonio Abate e i Napoletani


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Sant’Antonio Abate, nato intorno al 251 dopo Cristo in Egitto, è una figura di grande importanza nella tradizione cristiana, noto come il padre del monachesimo.

Dopo la morte dei genitori, donò i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto per vivere una vita di preghiera e penitenza.

La sua fama crebbe grazie ai miracoli e alle guarigioni attribuite alla sua intercessione, così come per la saggezza dei suoi insegnamenti.

Il legame di Sant’Antonio Abate con Napoli si rafforza attraverso la sua reputazione di protettore contro il fuoco e le malattie della pelle che nel Medioevo erano temute e diffuse.

Napoli, con le sue tradizioni popolari e religiose, ha sempre avuto una forte devozione per i santi capaci di proteggere la comunità dalle calamità.

La festa del 17 gennaio è un momento in cui i napoletani si riuniscono per celebrare e chiedere protezione a Sant’Antonio con processioni, benedizioni degli animali e falò, simbolo della sua capacità di domare il fuoco e le forze maligne.

Questa devozione si riflette anche nella presenza di chiese e luoghi a lui dedicati come la chiesa di Sant’Antonio Abate a Napoli, che testimonia la radicata venerazione del santo nella cultura e nella vita religiosa napoletana.

La chiesa di Sant’Antonio Abate è una delle più antiche esistenti in città.

Posta all’inizio dell’omonimo borgo sul lato di piazza Carlo III, la sua storia ha inizio da una leggenda.

Si narra che la chiesa sia stata fondata per volere della regina “Giovanna I d’Angiò” nata a Napoli nel 1326, ma antichi documenti dimostrano che già nel 1313 esistevano “chiesa ed ospedale” e che in questo luogo venivano curati gli infermi del morbo detto “fuoco sacro” o anche Fuoco di Sant’Antonio, con un prodotto ricavato dal grasso di maiale.

Molto probabilmente il complesso originario risaliva alla fine del XIII secolo, ma fu ampliato e in alcune parti ricostruito nell’ambito di un vasto programma di edilizia religiosa e assistenziale voluto nel 1370 dalla regina Giovanna I.

Programma che ebbe enorme valore ai fini dell’urbanizzazione del borgo e dell’omonima strada la quale, attraverso Porta Capuana, rappresentava la principale via d’accesso alla città.

Verso la fine del Trecento, quindi, il complesso era già costituito dalla chiesa, dall’ospedale e dal convento, ed era tenuto dai monaci ospedalieri antoniani i quali preparavano la sacra tintura che veniva usata per curare l’herpes zoster.

Tra i napoletani si diffuse così l’abitudine di allevare maialini per donarli al monastero.

L’ordine antoniano fu bandito agli inizi del Quattrocento dagli Aragonesi, che reputavano i monaci troppo legati ai loro protettori francesi.

Malgrado ciò, l’usanza durò fino al 1665 quando durante una processione, un maialino si intrufolò tra le gambe del vescovo il quale infuriato, dichiarò illegale l’allevamento cittadino dei maiali.

Il complesso originario poteva vantare ben quattro stabili.

Oltre alla chiesa vi erano infatti il lazzaretto, il convento, la torre col campanile, un cortile e una vigna che si estendeva per tutto il circondario.

La crescente urbanizzazione, l’aumento demografico e la crisi degli alloggi portarono un profondo e radicale cambiamento nella zona tra San Carlo all’Arena, via Foria e l’Arenaccia.

La vecchia strada detta “del campo” che univa piazza Carlo III con la stazione, fu completamente rifatta negli anni del Risanamento e grossi cambiamenti avvennero anche nel borgo di Sant’Antonio Abate.

L’allargamento della strada portò all’abbattimento di un lato della chiesa; i nuovi palazzi costruiti in via Foria vennero sovrapposti all’antico convento antoniano e le vecchie celle dei monaci e le stanze dei poveri ammalati di herpes vennero occupate abusivamente da altri poveracci sfrattati da un giorno all’altro per l’avvento dei lavori del risanamento.

La Chiesa” dopo anni di degrado e abbandono” è stata di recente restituita al culto e alla memoria dei napoletani grazie ad un restauro degli interni finanziato dal “Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio” e allo stanziamento di fondi europei per il ripristino dei suoi spazi esterni.

Una riapertura della chiesa fortemente voluta anche dal parroco don Mario D’Orlando che dopo quattro anni è potuto tornare ad officiare Messa in questo sacro luogo.

Tra le tradizioni del festeggiamento del santo c’è quella del fuocarazzo.

Tutto avveniva nel Borgo di Sant’Antonio, qui” in questo quartiere popolare di Napoli” si svolgeva il 17 gennaio la processione in onore del Santo al termine della quale venivano benedetti gli animali.

A questo momento seguiva l’immancabile rito del fuocarazzo, ovvero si preparavano grandi cataste di legno per darvi fuoco, un modo per simboleggiare la potenza del Santo in grado di spegnere le forze del Male ma anche un modo per disfarsi del vecchio.

Infatti era usanza lanciare dai balconi tutti gli oggetti inutilizzati in legno per contribuire al cippo.

Oggi questa tradizione, sebbene in misura molto minore, resiste ancora soprattutto nei quartieri del Borgo e di Forcella.





Dalle spalle della chiesa che si vede l’Albergo dei Poveri in piazza Carlo III

Il tragitto del Borgo di Sant’Antonio da porta Capuana a Piazza Carlo III, una volta unica srada più agevole che dall’est portava ad ingresso della città attraverso porta Capuana.


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