“Cap. 1°, La città dell’amore” “Cap. 2°, Virgilio” “Cap. 3°, Il mare” “Cap. 4°, La leggenda dell’amore”
Capitolo 3° – IL MARE
Voi errate lontano di qua, anima settentrionale e vagabonda, e le brume in cui si affissa il vostro malinconico occhio, vi mettono intorno quell’ambiente monotono e triste in cui si acqueta ogni agitazione.
Ma nelle tranquille divagazioni dove il vostro spirito ama-reggiato si disacerba, nella sorridente mestizia che aleggia in quello che scrivete, io veggo ogni tanto una esclamazione vivace.
Voi non avete dimenticato il nostro mare, il nostro bel mare di Napoli.
Ancora vi appare e scompare rapidissima innanzi agli occhi una visione azzurra; ancora un molle suono, quasi indistinto e fuggente, vi lusinga l’orecchio; un profumo sottile come un ricordo lontanissimo, vi fa dilatare le nari.
Il mio bel golfo voi non lo avete dimenticato.
Io leggo quello che scrivete, ma indovino quello che pensate.
Dovete soffrire di una segreta nostalgia che non osate confessare, voi, esiliato volontario.
E come l’eco dolorosa si ripercuote sul mio fedele o forte cuore d’amica, così io risponderò a quello che nascondete invece che a quello che palesate, e vi narrerò non la storia, ma la leggenda del mio poetico golfo.
Ognuno sa che Iddio, generoso, misericordioso e magnifico Signore, ha guardato sempre con un occhio di predilezione la città di Napoli.
Per lei ha avuto tutte le carezze di un padre, di un innamo-rato, le ha prodigato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare.
Le ha dato il cielo ridente ed aperto, raramente turbato da quei funesti pensieri scioglientisi in lagrime che sono le nubi; l’aria leggera, benefica o vivificante che mai non diventa troppo rude, troppo tagliente; le colline verdi, macchiate di case bianche e gialle, divise dai giardini sempre fioriti: il vulcano fiammeggiante ed appassionato; gli uomini belli, buoni, indolenti, artisti ed innamorati; le dame piacenti, brune, amabili e virtuose; i fanciulli ricciuti, dai grandi occhi neri ed intelligenti.
Poi, per suggellare tanta grazia le ha dato il mare.
Ma si soggiunge che il Signore Iddio, dandole il mare, ha saputo quel che si faceva.
Quello che sarebbero i Napoletani, quello che vorrebbero, egli conosceva bene e nel dar loro la felicità del mare, ha pensato alla felicità di ognuno.
Questo immenso dono è saggio, è profondo, è caratteristico.
Ogni bisogno, ogni inclinazione, ogni pensiero, ogni corpo, ogni fantasia, trova il suo cantuccio dove s’appaga, il suo piccolo mare nel grande mare.
Del passato, dell’antichissimo passato è il mare del Carmine.
Poco distante dalla spiaggia è l’antica porta di mare che introduce alla piazza; sulla piazza storicamente famosa si eleva il bruno campanile, coi suoi quattro ordini a finestruole che lo fanno rassomigliare stranamente al giocattolo grandioso di un bimbo gigante; le casupole attorno sono basse, meschine, dalle finestre piccole, abitate da gente minuta.
Il mare del Carmine è scuro, sempre agitato, continuamente tormentato.
Sulla spiaggia semideserta non vi è l’ombra di un pescatore.
Vi si profila qua e là la linea curva di una chiglia; la barca è arrovesciata, forse si asciuga al sole.
Dinanzi alla garitta passeggia un doganiere, che ha rialzato il cappuccio per ripararsi dal vento che vi soffia impotuoso.
Presso la riva una barcaccia nera stenta a mantenersi in equilibrio; dal ponte per mezzo di tavole è stabilita una comunicazione con la terra; vi vanno e vengono facchini, curvi sotto i mattoni rossi che scaricano a riva.
Ma non si canta ne si grida.
Il mare del Carmine non scherza.
In un temporale d’estate portò via un piccolo stabilimento di bagni; in un temporale d’inverno allagò la Villa del Popolo, giardino infelice, dove crescono male fiori pallidi e alberetti rachitici.
Qualche cosa di solenne, di maestoso vi spira.
Il mare del Carmine era l’antico porto di Parthenope dove approdavano le galee fenicie, greche e romane, ma era porto mal sicuro; esso ha visto avvenimenti sanguinosi e feste popolari.
È un mare storico, poetico e cupo.
Sulla piazza che quasi esso lambiva, dieci, venti volte sono state decise le sorti del popolo napoletano.
Le onde sue melanconiche hanno dovuto mormorare per molto tempo: Corradino, Corradino.
Le onde sue tempestose hanno dovuto ruggire per molto tempo: Masaniello, Masaniello.
È il mare grandioso e triste degli antichi che sgomenta le coscienze piccine dei moderni.
La sola voce del flutto rompe il silenzio che vi regna e qualche coraggioso, solitario e meditabondo spirito, vi passeggia, curvando il capo sotto il peso dei ricordi, fissando l’occhio sulla vita di quelli che furono.
Ma ferve la gente e ferve la vita sul mare del Molo.
Non è spiaggia, è porto quieto e profondo.
L’acqua non ha onde o appena s’increspa; è nera, a fondo di carbone, un nero uniforme e smorto, dove nulla si riflette.
Sulla superficie galleggiano pezzi di legno, brandelli di gomene, ciabatte sformate o sorci morti.
Nel porto mercantile si stringono l’una contro l’altra le barcaccie, gli schooners, i brigantini carichi di grano, di farina, di carbone, d’indaco, non vi è che una piccola linea di acqua sporca tra essi.
Sul marciapiede una grue eleva nell’aria il suo unico braccio di ferro, che s’alza e s’abbassa con uno stridore di lima.
Uomini neri dal sole, di fatica e di fumo, vanno, vengono, salgono o discendono.
Un puzzo di catrame è nell’aria.
Sulla banchina nuova, nel terrapieno, sono infissi pennoni a cui s’attorcigliano intorno grossissime gomene che danno una sicurezza maggiore ai vapori postali ancorati in rada.
A destra c’è il porto militare, medesimo mare smorto e sporco, dove rimangono immobili le corazzate.
Dappertutto barchette che sfilano, zattere lente, imbarca-zioni pesanti; le voci si chiamano, si rispondono, s’incrociano.
Il sole rischiara tutto questo, facendo brulicare nel suo raggio polvere di carbone, atomi di catene, limature di ferro; la sera l’occhio del faro sorveglia il Molo.
Il mare del Molo è quello dei grossi negozianti, dei grossi banchieri, degli spedizionieri affaccendati, dei marinari adulti, degli ufficiali severi che corrono al loro dovere, dei viaggiatori d’affari che partono senza un rimpianto.
È per essi che il Signore ha fatto il lago nero del Molo.
Del popolo e pel popolo è il mare di Santa Lucia.
È un mare azzurro-cupo, calmo e sicuro.
Una numerosa e brulicante colonia di popolani vive su quella riva.
Le donne vendono lo spassatiempo, l’acqua solfurea, i polipi cotti nell’acqua marina; gli uomini intrecciano nasse, fanno reti, pescano, fumano la pipa, guidano le barchette, vendono i frutti di mare, cantano e dormono.
È un paesaggio acceso e vivace.
Le linee vi sono dure e salienti; il sole ardente vi spacca le pietre.
Si sente un profumo misto di alga, di zolfo e di spezierie soffritte.
I bimbi seminudi e bruni si rotolano nella via, cascano nell’acqua, risalgono alla superficie, scuotendo il capo ricciuto e gridando di gioia.
Sulla riva un’osteria lunga lunga mette le sue tavole dalla biancheria candida, dai cristalli lucidi, dall’argenteria brillante.
Di sera vi s’imbandiscono le cene napoletane.
Suonatori ambulanti di violino, di chitarra, di flauto improvvisano concerti; cantatori affiochiti si lamentano nelle malinconiche canzonette, il cui metro è per lo più lento e soave e la cui allegria ha qualche cosa di chiassoso e di sforzato che cela il dolore; accattoni mormorano senza fine la loro preghiera; le donne strillano la loro merce.
Di estate un vaporetto scalda la sua macchina per andare a Casamicciola, la bella distrutta, i barcaiuoli offrono con insistenza, a piena voce, in tutte le lingue, ai viaggiatori il passaggio fino al vaporetto.
Dieci o dodici stabilimenti di bagni a camerini piccoli e variopinti; si asciugano al sole, sbattute dal ponente, le lenzuola; le bagnaiuole hanno sul capo un fazzoletto rosso e fanno solecchio con la mano.
Una folla borghese e provinciale assedia gli stabilimenti, scricchiolano le viottole di legno.
Salgono nell’aria serena, canti, suoni di chitarra, trilli d’organino, strilli di bimbi, bestemmie di facchini, rotolio di trams, profumi e cattivi odori; rifulgono i colori rabbiosi o mordenti; fiammeggiano le albe riflesse sul mare; fiammeggiano i meriggi lenti e voluttuosi, riflessi sul mare; s’incendiano i tramonti sanguigni riflessi sul mare che pare di sangue.
È il mare del popolo, mare laborioso, fedele e fruttifero, mare amante ed amato, per cui vivo e con cui vive il popolo napoletano.
Eppure, a breve distanza, tutto cangia d’aspetto.
Dalla strada larga e deserta si vede il mare del Chiatamone.
La vita si estende per quel vastissimo piano, si estende quasi all’infinito, poiché è lontanissima la curva dell’orizzonte.
Quel piano d’acqua è desolato, è gridio.
Nulla vi è d’azzurro e la medesima serenità ha qualche cosa di solitario che rattrista.
Le onde si frangono contro il muraglione di piperno con un rumore sordo e cupo; lontano, gli alcioni bianchi ne lambi-scono le creste spumanti.
A sinistra s’eleva sulla roccia il castello aspro, ad angoli scabrosi, a finestrelle ferrate; il castello spaventoso dove tanti hanno sofferto ed hanno pianto; il castello che cela il Vesuvio.
Contro le sue basi di scoglio le onde s’irritano, si slanciano piene di collera e ricadono bianche e livide di rabbia impotente.
Quando le nuvole s’addensano sul cielo e il vento tormentoso sibila fra i platani della villetta, allora la desolazione è completa, è profonda.
Di lontano appare una linea nera: è una nave sconosciuta che fugge verso paesi ignoti.
Alla sera, passa lentamente qualche barca misteriosa che porta una fiaccola di luce sanguigna a poppa e che motte una striscia rossa nel palpito del mare: sono pescatori che stordiscono il pesce.
In quelle acque un giovanetto nuotatore, bello e gagliardo, vinto dalle onde, invano ha chiamato aiuto od è morto affogato; in una notte d’inverno una fanciulla disperata ha pronunciata una breve preghiera e si è slanciata in mare, donde l’hanno tratta, orribile cadavere sfracellato e tumefatto.
È il mare del Nord, con la sua mestizia, la sua vastità deserta, i suoi scogli lacerati, il metro piangente dell’onda; è il Nord coi suoi fantasmi, con le sue nebulosità.
È il mare che Dio, come dice la vecchia leggenda, ha fatto per i malinconici, per gli ammalati, por i nostalgici, per gl’innamorati dell’infinito.
Invece ride il mare di Mergellina; ride nella luce rosea delle giornate stupende; ride nelle morbide notti d’estate, quando il raggio lunare pare diviso in sottilissimi fili d’argento, ride nelle vele bianche delle sue navicelle che paiono giocondi pensieri aleggianti nella fantasia.
Sulla riva scorre la fontana con un cheto e allegro mormorìo; i fanciulli e le fantesche in abito succinto vengono a riempirvi le loro brocche.
Un yacht elegante dall’attrezzeria sottile come un merletto, dalle velette candide orlate di rosso, si culla mollemente come una creola indolente: porta il nome a lettere d’oro, il nome dolce di qualche creatura celestiale o bionda: Flavia.
Uno stabilimento di bagni, piccolo ed aristocratico, si congiunge alla riva per una breve viottola, sulla viottola passano le belle fanciulle vestite di bianco, coi grandi cappelli di paglia coperti da una primavera di fiori, cogli ombrellini dai colori splendidi che si accendono al sole; passano le sposine giovanotte, gaie e fresche, attaccato al braccio dello sposo innamorato; i bimbi graziosi, dai volti ridenti e arrossati dal caldo.
E nel mare, giù, è un ridere, uno scherzare, un gridìo fra il comico spavento e l’allegria dell’acqua fredda, e corpi bianchi che scivolano fra due onde e braccia rotonde che si sollevano e volti bruni dai capelli bagnati.
È la festa di Mergellina, di Mergellina la sorridente, fatta per coloro cui allieta la gioventù, cui fiorisco la salute, fatta pei giovani che sperano e che amano, fatta per coloro cui la vita è una ghirlanda di rose che si sfogliano e rinascono sempre vive e profumate.
Ma il mare dove finisce il dolore è il mare di Posilipo, il glauco mare che prende tutte le tinte, che si adorna di tutte lo bollezze.
Quanto può ideare cervello umano per figurarsi il paradiso, esso lo realizza.
È l’armonia del cielo, delle stello, della luce, dei colori, l’armonia del firmamento con la natura, mare e terra.
Si sfogliano i fiori sulla sponda, canta l’acqua penetrando a nelle grotte, l’orizzonte è tutto un sorriso, Posilipo è l’altissimo ideale che sfuma nella indefinita e lontana linea dell’avvenire; Posilipo è tutta la vita, tutto quello che si può desiderare, tutto quello che si può volere.
Posilipo è l’immagine della felicità piena, completa, per tutti i sensi, per tutte le facoltà.
È la vita vibrante, fremente, nervosa e lenta, placida ed attiva.
E il punto massimo di ogni sogno, di ogni poesia.
Il mare di Posilipo è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori, per gl’innamorati di quell’ideale che informa e trasforma resistenza.
Quando il Signore ebbe dato a noi il nostro bel golfo, udite quello che la sacrilega leggenda gli fa dire: uditolo voi, anima glaciale e cuore inerte.
Egli disse: Sii felice per quello che t’ho dato, e se non lo puoi, se l’incurabile dolore ti traversa l’anima, muori nelle onde glauche del mare.