Il castello “Maschio Angioino/Castelnuovo”


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L’anno era il 1266, e la brezza marina di Napoli portava con sé i sussurri di un regno in trasformazione.

Carlo I d’Angiò, appena incoronato re di Sicilia, fissava l’orizzonte con gli occhi pieni di ambizione.

La sua recente vittoria sugli Svevi aveva cambiato il destino della città.

Napoli, vibrante e caotica, sarebbe divenuta la nuova capitale del regno.

Ma serviva qualcosa di maestoso, un simbolo di potere e dominio.

Il vecchio Castel Capuano, dimora dei re normanni, non poteva soddisfare il suo desiderio di grandezza.

Nacque così l’idea di un nuovo castello, un “Chastiau neuf”, che sarebbe sorto sulle sponde del mare, divenendo baluardo e reggia.

Così, nel 1279, le pietre cominciarono a prendere forma sotto la guida dell’architetto francese Pierre de Chaule, e in soli tre anni il Castrum Novum si ergeva potente, pronto ad accogliere re e regine.

Ma Carlo I non vi abitò mai.

Le fiamme della rivolta dei Vespri Siciliani soffocarono la sua corona di Sicilia, e la grandiosa fortezza restò vuota, silenziosa testimone della morte del suo creatore nel 1285.

Fu suo figlio, Carlo II lo Zoppo, a trasformare quel castello in una vera e propria reggia.

La famiglia reale si trasferì tra le mura possenti, e lì, tra intrighi e alleanze, si scrisse la storia della monarchia angioina.

Nel 1294, la sala maggiore vide l’abdicazione del papa eremita Celestino V, e solo pochi giorni dopo, nello stesso luogo, Benedetto Caetani divenne Papa Bonifacio VIII, aprendo una nuova era di tensioni e giochi di potere tra la Chiesa e la casa d’Angiò.

Nel 1309, quando Roberto il Saggio ascese al trono, il castello si trasformò in un fiorente centro culturale.

Le stanze riecheggiavano delle voci di illustri visitatori, come Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, mentre i pennelli di artisti come Giotto decoravano le pareti della cappella Palatina con scene di gloria e devozione.

Ma anche i re più saggi non possono sfuggire ai giochi del destino.

Giovanna I, che dimorò nel castello dal 1343, vide il suo regno frantumarsi sotto gli assalti dell’esercito ungherese.

Tra le mura, si narrava di intrighi e delitti, e una leggenda cupa iniziò a prendere forma: si diceva che la regina, insoddisfatta dei suoi amanti, li gettasse in una botola segreta, dove un coccodrillo affamato li attendeva nei sotterranei.

Realtà o fantasia, le storie del Maschio Angioino continuavano a crescere, alimentate da secoli di storia.

Nel 1443, un nuovo re, Alfonso d’Aragona, riportò splendore e potenza al castello, ricostruendolo e trasformandolo in una maestosa roccaforte.

Re Alfonso innalzò un nuovo simbolo di potere: un arco trionfale, espressione del Rinascimento, che accoglieva chiunque varcasse le porte del castello.

Le cinque torri rotonde che lo circondavano affermavano il ruolo difensivo della fortezza, ma erano anche un richiamo alla magnificenza di Napoli, ormai città regale.

Ma la storia del Maschio Angioino è segnata anche da sangue e tradimenti.

Nel 1487, la Sala dei Baroni fu testimone di uno degli episodi più drammatici della storia napoletana: la congiura dei baroni contro Ferdinando I d’Aragona.

Invitati con il pretesto di una festa di nozze, i nobili furono arrestati e giustiziati, segnando la fine di una stagione di ribellioni.

Con l’inizio del XVI secolo, Napoli cadde sotto il dominio spagnolo, e il castello perse la sua funzione di reggia per diventare un presidio militare.

L’epoca dei fasti sembrava lontana, e le sue mura si trovarono a dover resistere all’incuria e ai saccheggi.

Il castello fu spogliato dei suoi ornamenti, e le splendide finestre guelfe vennero sostituite con anonime finestre in muratura.

Persino gli affreschi di Giotto vennero cancellati, un colpo inferto non solo dal tempo ma anche dall’indifferenza dell’uomo.

Il declino continuò nel XVIII secolo, quando il castello divenne una prigione sotto il dominio borbonico.

Le stanze un tempo abitate da re e regine furono trasformate in celle fredde e umide.

Tuttavia, all’inizio del XIX secolo, Carlo di Borbone tentò di riportare in vita il glorioso passato del Maschio Angioino.

Alcune facciate furono restaurate, e parte della sua grandezza fu recuperata.

Ma la sua funzione di residenza reale era ormai solo un lontano ricordo.

L’alba del XX secolo portò nuove speranze per il castello.

Nel 1921 venne proposto un ambizioso progetto di restauro, che avrebbe riportato il Maschio Angioino al suo splendore quattrocentesco.

Le superfetazioni accumulate tra il XVII e il XIX secolo furono abbattute, le antiche mura vennero liberate e le finestre medievali riaperte.

Persino il fossato aragonese, a lungo sepolto sotto la polvere del tempo, tornò alla luce. Il castello, una volta soffocato da edifici e capannoni, respirava di nuovo.

Ma la Seconda Guerra Mondiale colpì duramente Napoli, e il Maschio Angioino non fu risparmiato.

La Cappella Palatina, una delle gemme del castello, subì gravi danni.

Tuttavia, al termine del conflitto, il suo spirito gotico fu riscoperto, e i lavori di restauro riportarono alla luce le sue antiche forme.

Negli anni seguenti, la Sala dei Baroni divenne sede del consiglio comunale, un simbolo del legame tra passato e presente.

Con l’inizio del XXI secolo, il Maschio Angioino continuò a evolversi.

Nel 2003, iniziarono i lavori per la riqualificazione di Piazza Municipio, che circondava il castello, mentre nel 2021 fu avviato un nuovo ciclo di restauri, questa volta per l’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona.

Tuttavia, il tempo non era stato clemente, e nel 2022, nuove crepe fecero temere per la stabilità del castello, spingendo le autorità a intervenire con urgenza.

Oggi, il Maschio Angioino si erge ancora fiero, simbolo della storia millenaria di Napoli.

Ogni pietra, ogni torre, racconta un pezzo della sua storia: dalle lotte di potere medievali, agli splendori rinascimentali, fino alla sua rinascita nel XX secolo.

Un monumento che, nonostante il peso del tempo, continua a scrivere la sua storia, giorno dopo giorno, testimone immortale della grandezza e delle sfide della città che l’ha visto nascere.


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