Napoli raccontata attraverso un finestrino


Sono sempre stato un sognatore e fin da bambino ho amato viaggiare, ma a quei tempi non era possibile farlo, un po per l’età troppo giovanile, ma molto per la mancanza di moneta.
Allora mettevo in moto la fantasia e nel mio piccolo mondo cercavo di crearmi un viaggio che mi facesse sognare, qualcosa che mi facesse credere di andare lontano, attraversando mondi e paesi.
Abitavo al 4 piano senza ascensore, ricordo che gli scalini dall’ultimo piano cominciavano altissimi, ma man mano che si scendeva diventavano piu bassi e i solai delle scale erano ad arco con una ringhierina in ogni ballatoio che affacciava nel cortiletto centrale.

Il calpestio interno era di basoli, in pietra vesuviana, e il mastodontico portone era di legno massiccio, con la porticina pedonale spessa almeno 20 cm.

Fuori, la strada era piena di auto parcheggiate anche sul marciapiede, tra un alberello e l’altro, fortunatamente via san Giovanni a Carbonara è molto larga(*), c’era abbastanza spazio, pedoni e auto riescono a coinvivere, ma c’era anche molta spazzatura a terra, non esistevano ancora i cassonetti.

Mi avviai verso porta Capuana, alle 9 del mattino erano svegli già tutti, da un basso sulla sinistra ad angolo con vico lungo a Carbonara dei ragazzi urlavano sfidandosi ai calcio balilla e ai flipper, ancora non elettronicizzati.
Dai giovani agli anziani, accanto al basso vi era una cantina dove c’era chi di prima mattina preferiva un bicchiere di vino al caffè, in quel posto spesso mio padre mi mandava con una bottiglia di vetro a farla riempire di 3/4 rosso e una gassosa, anche io ne bevevo un po’ a pranzo.
A porta Capuana facevo colazione, da Michele, angolo Maddalena, unico nella zona a quei tempi, una pizzetta a portafoglio, 100 lire se ricordo bene, le davo i primi morsi avviandomi sotto la storica porta(*), passando vicino la statua di san Gaetano, sui giardinetti affianco santa Caterina a Formiello, una statua non bella, ricordo che aveva una mano molto grande, sproporzionata rispetto al resto, dita squadrate, ne avevo un pò timore.(*)
Oltrepassai la porta e comparve il palazzotto della Pretura, ex carcere, al suo fianco si ravvivo’ di molto il panorama, uno spiazzo che per chi abita da quelle parti è sempre porta Capuana ma lato Pretura, per distinguerlo da porta Capuana lato Tribunale, in realtà è piazza Giovanni Leone, e li c’era lo stazionamento della Tpn, prima i tram, poi gli autobus, che dalla provincia portavano ogni giorno in città migliaia di persone. (*)

Era una delle piazze più commerciali di Napoli, almeno fino a quando la Pretura e il tribunale di Castel Capuano erano ancora in funzione. (*)
Passai oltre, il mio viaggio non era ancora iniziato, ero nei pressi del ponte di Casanova, affollato da bancarelle di abbigliamento dell’usato, ricorda la mitica Resina di Ercolano, a quei tempi c’era tanta gente ad acquistare, la povertà era vera, oggi le bancarelle sono quasi scomparse.
Poco prima di incrociare via Arenaccia, sulla sinistra una scritta cubitale sul muro della scuola media Gabelli recitava: “Siamo forti, siamo belli, siamo i ragazzi della Gabelli”, spero per loro che abbiano ancora questa convinzione.
Ecco piazza Nazionale, (*)piazza grandissima, sempre alberata e ricca di giardinetti su cui affacciavano gli ex uffici della ENPAS, luogo purtroppo caro a mia madre, e il chiosco di un bar con un bilico su cui venivano pesati i camion che trasportavano, in modo molto precario, gli scogli diretti a Mergellina o Bagnoli, oggi impensabile un trasporto simile, e dopo alcuni anni, da tecnico, fui io in quello stesso posto, a pesarli.

Fin qui il percorso mi era già noto, frequentavo una scuola media che ora non ce’ più in un vicolo adiacente e ci arrivavo, a piedi, tutti i giorni.
Attraversando la piazza entravo nell’ignoto, tutto per me era nuovo o quasi, corso malta era solo un grande asse viario a due corsie con baracche al centro, la tangenziale sarebbe arrivata solo dopo qualche anno.(*)

Oltrepassai il lungo muro del carcere(*) su cui vi era ancora la vigilanza armata, la storia finiva, non vi era più niente di rilevante, il Centro Direzionale forse non era neanche in progetto, le prime torri spuntarono nel 1995, in compenso sullo sfondo era ancora visibilissimo il Vesuvio.
Continuavo ancora a camminare, la mia meta era ormai vicina, e lì sarebbe cominciato il mio vero viaggio che mi avrebbe permesso di attraversare tutta la città.
Avevo gia sentito parlare dell’emiciclo di Poggioreale, lo avevo visto qualche volta passandoci in auto, ma lo ricordo sempre mal tenuto e addirittura abbandonato, annerito dal fumo e dal tempo.
Solo dopo molto tempo ho saputo che era uno degli ingressi del muro finanziere voluto da Francesco I nel 1826 e che circondava tutta Napoli, e di fronte, faceva bella mostra di se l’ingresso monumentale dello storico cimitero, presente dal 1837.
Al centro dell’emiciclo vi era lui, la meta del mio viaggio, dei miei desideri e del mio sogno , il mitico tram numero 1.(*)
Dipinto di verde, tre alti scalini per entrarci, una porta posteriore e una anteriore con gli sportelli in legno che si chiudevano a fisarmonica, finestrato quanto più possibile, due file di sediolini laterali lungo i finestrini, comodissimi, elegantissimo nella sua semplicità, il guidatore avanti in posizione centrale, e il cartello “vietato parlare al conducente”.
In pochi salivano al capolinea, avevo la scelta del posto, scelsi uno con il finestrino libero da montanti, sul lato sinistro, sapevo gia che da lì il panorama sarebbe stato molto più interessante.
È giusto il momento della partenza, sono due gli addetti alla linea, uno è il bigliettaio fornito del suo spartano ma pratico distributore di biglietti, una pila per ogni tipologia, dalle 10 lire corsa operaia, fino alle 100 lire corsa completa.
Dopo aver passato in rassegna i viaggiatori distribuendo loro i titoli di viaggio, andava a posizionarsi al suo posto nella parte posteriore, al fianco alla porta, seduto sul suo alto sgabello da cui teneva tutti sotto controllo.
Anche il conducente, dopo aver dato una rapida occhiata ai viaggiatori, si posizionava alla guida, due avvisi sonori con un clacson simili al suono di un campanaccio, lo sbuffare delle porte che si chiudevano, e via, mi piaceva molto sentire il rumore delle ruote ferrate sui binari, era cominciato il mio viaggio.
Nel primo tratto del viaggio vedevo scorrere dal finestrino quello che già avevo visto a piedi all’andata, non ricordo cosa si vedeva dove ora è il Centro Direzionale, non vi erano costruzioni alte, probabilmente era zona di autorottamazioni, baracche in cui venivano venduti ricambi usati di auto, probabilmente poteva anche capitare di trovare pezzi di auto di chi aveva subito un furto.

Il primo emozionante passaggio era a piazza Nazionale, i binari correvano al centro dei giardinetti, sembrava viaggiare in un prato verde.
Una leggera discesa all’altezza del ponte di Casanova e subito la prima “virata” a sinistra, verso il mare, con fermata al mitico e storico bar “Flordocafe’ ” da cui lo stazionamento prendeva il nome.(*)
Qui il tram cominciava ad affollarsi, probabilmente di viaggiatori che provenivano dalla fermata della CTP provinciale di porta Capuana e proseguivano in città il loro viaggio.
Passata piazza Principe Umberto si fermava al centro di piazza Garibaldi,(*) si scendeva e si saliva in gran numero, dal mio finestrino vedevo la piazza in tutta la sua profondità, in fondo si notava un altro capolinea formato da una pensilina che partiva dalla stazione e si allungava verso il centro della piazza, a copertura di lunghe corsie dove stazionavano i bus dell’ ATAN.(*)
Il tram era ormai carico al massimo, sentivo il bigliettaio chiamare a gran voce chi cercava di nascondersi approfittando della folla, ed ancora maggiore era la folla alla fermata successiva ad altezza terminale circumvesuviana, qui entrava di tutto, donne con la spesa provenienti dal mercato “aret e mmur” , viaggiatori della circum, anziani armati di bagaglino e canna da pesca, ragazzini già in tenuta da mare, e tra questi molti preferivano viaggiare appesi dietro al tram,(*) evitando discussioni con il bigliettaio che faceva finta di non vederli, sarebbe stata una battaglia persa..
Ed era in queste condizioni che arrivati su via Marittima dopo aver attraversato piazza Pepe, si “virava” sulla destra affiancando piazza del Mercato e la chiesa del Carmine.
Negli anni settanta, via Marittima non era granché, le due torri ad incrocio con corso Garibaldi, la Brava e la Spinelli, erano solo sporchi e malandati spartitraffici e nessuno si chiedeva cosa fossero, abbandonati come erano all’incuria e all’abbandono.
Lungo via Marittima sul lato mare correva un alto muro di cinta “cancellato”, che impediva di visualizzare cosa ci fosse al di là, nel porto, zona vietata al passaggio anche pedonale, mentre dall’altro lato, dopo piazza del Carmine fino a via Duomo oltrepassato, facevano brutta mostra di se una fila di palazzi fatiscienti e pericolanti, cioè quello che venne nascosto dal Risanamento con la costruzione del corso umberto e piazza della Borsa, quei palazzi furono abbattuti qualche anno dopo.
Il Tram continuava ad essere pieno, molti erano gli anziani, forse avrei dovuto cedere il posto ma non mi andava, quel posto me lo ero guadagnato con una lunga camminata da casa fino all’emiciclo, non potevo perderlo, quello era il mio “viaggio fantastico”.

Ed ecco improvvisamente, nel viaggio, tornare la storia, non potevo vederla ma sapevo che era lì, la chiesa di santa Maria di Portosalvo, era lì dal 1560, ed ora anche essa ridotta a spartitraffico.
Quello che non potevo sapere invece e che fu fondata a protezione dei marinai, e come chiesa marinara fu eretta su una sporgenza di terra bagnata su tre lati dal mare il quale penetrava, all’epoca della sua costruzione, fino all’attuale piazza della Borsa.
Altri 100 metri ed il panorama cominciava ad allargarsi, iniziavo a vedere un film visto molto raramente attraeva moltissimo il mio intetesse. Dietro il vetro del mio finestrino cominciavano a scorrere le immagini del porto, vedevo il mare, il molo, non ricordo di aver visto le grosse navi turistiche, ma al molo beverello attraccavano ancora i traghetti per le isole, non c’erano le grosse navi della Caremar, ma piccole navi della Navigazione Libera del Golfo, la SPAN e la linea Lauro, assurdo oggi pensare di navigarci con il mal tempo.
Alla fermata del porto scendevano in molti, il tram ora era mezzo vuoto, e ciò mi permetteva finalmente di vedere dall’altro lato, una presenza enorme, minacciosa ma fantastica, eravamo sotto le sue torri che, dalla piccolezza della mia età, vedevo altissime ed enormi, eravamo ai piedi del millenario Maschio Angioino, con i suoi basamenti tondeggianti ed i suoi merli minacciosi.
Un po piu avanti, sulla sinistra, dei giardini, non li conoscevo e non ero mai stato lì , anzi non sapevo nemmeno che fossero giardini, molti anni dopo seppi che erano i giardini del Molosiglio.
Subito dopo, il tratto che mi emozionava di più, l’ingresso in galleria, durava 2 o 3 minuti, si procedeva a velocità costante e si sentiva il rumore assordante delle ruote sui binari e il motore assordante delle auto.
In estate godevi un pò di fresco, le luci interne si accendevano e finalmente ti giravi intorno e ti accorgevi di chi ti stava vicino.
Uscimmo a piazza Vittoria, le palme altissime erano impressionanti, non c’erano alberi così nel centro di Napoli.
Una esplosione di eleganza e di bellezza, molto diversa dal resto del viaggio fatto fino ad ora.
Dal contesto popolare alla city, dalla city all’eleganza, il tram cominciò a scorrere per la riviera di Chiaia e cominciava di nuovo a riempirsi, ma questa volta di persone meno vocianti, meno ingombranti, e la villa scorreva dietro al vetro, solo lì potevo contemplare il panorama di tanti alberi messi insieme.
L’ ammiravo ma non potevo immaginare che era lì da 5 secoli, che una volta era una villa reale, e ora stavo camminando lì, dove prima dei giardini arrivava il mare, sulla spiaggia dei pescatori di Chiaia.
Eccoci a Mergellina, non capivo perché il mare lì avesse preso il suo nome, io non riuscivo nemmeno a vederlo, ma a testimoniare la sua presenza erano i ragazzini che avevo dimenticato, quelli che viaggiavano attaccati dietro al tram i quali, una volta scesi, si avviarono per un vicolo da dove probabilmente sarebbero arrivati al mare.
Lasciata Mergellina arrivammo a piazza Sannazaro, riconobbi la zona perché li c’era uno slargo pieno di tavolini e sedie in legno, il posto era molto popolare, ci si poteva sedere per mangiare sia pizze che zuppe di cozze, e in più nelle vicinanze c’era una birreria in cui si ci riforniva di birre per portarle ai tavoli, era una sorta di pranzo di famiglia all’aria aperta, lo ricordo perchè mio padre mi ci portava spesso.
Oltrepassata piazza Sannazaro, il tram rientrava in galleria, questa volta era in leggera pendenza a salire, sulla quale il mezzo soffriva non poco.(*)
Sapevo che il “tragitto storico” sarebbe finito lì, quello che avrei visto uscendo dalla galleria sarebbe stato completamente differente dal panorama visto fino ad ora.
Sarei potuto scendere a Mergellina a godermi un pò di sole e guardare gli scogli, ma rimasi dov’ero, ormai era quasi un’ ora che viaggiavo, la curiosità mi spingeva a vedere oltre, ricordo di aver visto il palazzo dello Sferisterio, seppi poi che nella sua età più florida fu teatro di incontri nazionali ed internazionali di pelota basca, di ping pong e di tamburello e che all’epoca contava numerosi appassionati, ma subì molti danni durante il terremoto del 1980 e fu abbandonato a se stesso.
Vidi la stazione metrò del Campi Flegrei(*) ma per quanti sforzi feci, non riuscì a vedere lo stadio san Paolo, nella parte opposta.
Quindi ci avviammo per un percorso rettilineo, anonimo, credo lungo almeno un paio di km, via Diocleziano, che ci avrebbe portato fino a Bagnoli.(*)
Qui, a piazzetta Bagnoli, (*) aveva termine il tratto a due binari, vi era spazio per un solo tram che da piazza Bagnoli raggiungeva il capolinea o viceversa, e un semaforo regolamentava il passaggio.(*)
In quel caso eravamo noi fermi ad aspettare l’arrivo del tram che era in partenza, poche centinaia di metri, in attesa su lungomare di Bagnoli, si vedeva Nisida, Ischia, e in quel momento mi sentivo lontanissimo da casa, un viaggio durato un ora e mezza, era come se avessi viaggiato per mezzo mondo, un panorama e un contesto che cambiava continuamente, vidi cose che gia conoscevo e cose che vedevo per la prima volta, non avrei di certo rimpianto il costo del biglietto.
Vidi passare il tram che iniziava la sua corsa indirezione opposta alla mia, e quindi ci avviammo noi, destinazione “Dazio”, il capolinea, pochi secondi e arrivammo ad un piccolo emiciclo da dove si poteva riprendere la corsa all’inverso, il tram si fermò e sbuffando aprì definitivamente le sue porte, sembrava quasi stesse riposando.(*)
Scesi un po intorpidito, andai verso il muretto che separava la strada dal mare e ci salii sopra, sugli scogli vi erano dei pescatori, alcuni ragazzi si tuffavano nelle acque non molto limpide, pensai di raggiungerli ma il campanaccio del tram che segnalava la partenza per la corsa del ritorno mi fece abbandonare l’idea.(*)
Tornai indietro per non perdermi il viaggio di ritorno, sempre allo stesso posto, quello con cui avevo affrontato con tanta emozione all’andata, ma questa volta era diverso, non era il panorama verde degli alberi e il blu del mare che guardavo, bensì il lato della città in cui si svolgeva la vita quotidiana dei napoletani, la faccia interna di Napoli.
sergio dattilo

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